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22 settembre 2011

Hypnerotomachia Palasciani, canti VIII-IX, frammento sugli anelli di Saturno

Saturno. La sua colorazione, nel poema e qui, è simbolica; in realtà le sue tinte sono gialle.

La sequenza ambientata tra gli anelli di Saturno è l'unica parte della Hypnerotomachia Palasciani cui l'autore non abbia abiurato. Consiste dei versi conclusivi del canto VIII, dal 65 in poi, più la parte iniziale del canto IX fino al verso 38 e (saltando i versi 39-46) dal verso 47 al 62. Argomento (dal sommario): «Levitazione del P. in conseguenza della carica di energia spirituale ricevuta recitando [su Urano]. Immersione negli anelli di Saturno. [...] Il P. è tolto al fiume dei morti da un angelo. Il vero aspetto della dea Morte. Visione di un’amica morta nel 1998. Il P. mette piede sul suolo di Saturno».

Qui di séguito riportiamo il testo (la cui colonna sonora ideale è il brano dei Dead Can Dance – ai quali chiaramente allude VIII 84 – Sanvean. I am your shadow, per contralto e orchestra d'archi).


CANTO VIII
[…]
A nuoto andai per l’aria di zaffiro,
che digradando in nero indi sentii

farsi piú fresca; e, poi che in alto miro,
scorgo il pianeta i cui lucenti anelli,
piú che i gioviani e uranii, fanno giro

amplissimo; e vinile paion quelli,
dove suon si registri. Tante piste,
tanti violetti; tali i suoi pastelli.

Piú avanti udii la musica piú triste
e dolce che creò moderno o antico,
come il ricordo di chi non piú esiste;

e sale il gelo, e ignoro quale amico
dimori in queste plaghe dove Inverno
mai cede a Primavera, ab antico,

e avvolge tutto in un sopore eterno.
Il gel mi stringe sí, che in un tremèns
delirium, quasi, tutto mi sconcerno;

qui non distingue piú, la diaccia mens,
res extensa da cògitans; qui apprendo,
e nol credéa, che a volte i dead can dance:

che anche danzar si può, piú non vivendo.
Lungo gli anelli che il gigante bruno
cígnono, come cigni van scorrendo,

bianchi; che sono i morti. Va ciascuno
in lenta danza, come in acqua foglia
che su sé stessa ruota, e mai nessuno

apre gli occhi, che piú di luce voglia
non hanno. «Dolce Amor, dai miei sospiri
– quasi cristallo ormai – fa’ che si scioglia

una lacrima e brilli e spanda un’iri
i cui colori io veda ultima cosa,
pria che per pièta piú che gelo io spiri

e me congiunga alla danza pietosa»:
parole che gemmarono a fatica
dalla gelata cassa, e già la rosa

del respiro era un fiato di formica.
Come dormienti persi in dolce sogno,
nel coma, cui le braccia muove amica

mano di chi sia pronto al lor bisogno
cosí che l’atrofia non li divora,
cosí quell’aura dei color del prugno

li smuove e fa danzar, lenta, e sonora
di quel canto senza ètimo che sale
dal cuore (e a ripensarlo ancor m’accora)

di Saturno. In quell’aura ormai glaciale
mi tuffai, senza opporle resistenza;
fui fra i morti, in assenza d’alcun male,

d’alcun male, fra i morti, in dolce assenza
d’ogni pensier, d’ogni fïato, perso
in quel fiume d’amor che in cerchio, senza

fine, scorre da sempre in un sol verso,
sopra Saturno che raccoglie i morti,
intorno a sé, di tutto l’universo,

in modo che quel canto li conforti.

CANTO IX
Venne un angelo. Io credéi fosse Amore
in persona, mosso a pietà di me;
me che pietà avéa mosso, e che tuttore

mi movéa, di quell’anime, a unir me
al loro andar come ninfèe su fiume.
L’angel mi prese, e dolce via con sé

mi portò, e si facéa strada d’un lume
ch’era diamante, e lacrima era stato.
Mal muoia chi dei morti fa pattume,

chi in fosse interra lor, strato su strato,
scarcando da autocarri i tristi pesi
che già la prigionia ebbe sfrondato.

No, eran sí dolci, tra i cieli sospesi,
coi lor sembianti ripuliti e belli,
che non mi pesan l’ore, i giorni, i mesi,

oggi che vivo, e so che un dí fra quelli
sarò, che ne ha tal cura il dolce Amore,
che ne ravvía meravigliosi anelli.

Vivono i morti in eterno sopore;
la Morte li accudisce, e lava i volti
con le lacrime di chi resta fuore;

Morte, vergine dai capelli sciolti,
bianchi nel vento che trascorre lento,
pastorella di quegli sciami folti.

Già l’angelo (non so se uno dei cento
servi d’Amore, o Amor stesso, sol servo
dell’Alto Lume che non fia mai spento)

fuor mi traeva; e qui mi volto e osservo
l’ultima volta l’äura violetta
di quegli anelli; e come a ignaro cervo

Orione preparò la sua saetta
ma lo Scorpione a lui la preparava,
a me si volse un’anima soletta:

io lei osservavo, e me lei osservava,
se osservare si può con gli occhi chiusi;
io non parlavo, ed essa non parlava.

Poi si volse, ëd io in me mi racchiusi,
stretto all’angelo; lei morta, io vivo.
[…]

[…]
Sul suolo di Saturno fui posato.
Se volò prima lento, or sparí tosto,

il bell’angelo che m’aveva amato
per il tempo dovuto a trarmi fuori
del vortice in cui m’ero abbandonato.

Inverno dispiegava i suoi tesori:
neve lucente; e violetti rami,
come vene d’inchiostro che lavori

sulle pagine a far d’esse diorami
che s’apran come il cuore di chi legge,
se ha amor d’amico o è d’altro amor che t’ami.

Inverno chiuse tutto in süa légge
bianca come la morte. Inverno piange
cristalli che la fredda aura sorregge

finché lor tórma giú in terra si frange,
e tutto copre come suole Oblio.
[…]